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Le vecchie famiglie nobili

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I Maramonte

lo-semma-della-famiglia-maramonteLa famiglia Maramonte conservò ininterrottamente il possesso di Botrugno dal XIII secolo sino alla metà del XVII. Non mancarono tra i suoi esponenti illustri condottieri, come Stefano Maramonte, forse figlio del barone Giacomo, che nel 1498 fu capitano dei fanti in Lombardia, e Raffaele Maramonte, al quale nel 1564 fu innalzato il sarcofago che ancora oggi si può osservare (foto successiva).

A Tarquinio Maramonte si deve la costruzione del Convento. A tale iniziativa fu sollecitato dall'affetto che lo legava ai religiosi Francescani, ma più ancora, forse, il desiderio di dare degna sepoltura al fratello Raffaele, insigne guerriero.

Nella prima metà del Seicento, dominata dalla figura del Barone Giovanni Tommaso, figlio di Tarquinio, l'epoca dei Maramonte sembra avviarsi verso un triste declino. Nel 1605 il barone Giovanni Tommaso, prima di sposarsi con Beatrice de Vargas, aveva ricevuto in eredità dal padre, oltre al casale di Botrugno, anche la terra di Scorrano.

Nello stesso periodo appare sempre più numerosa la presenza di altre nobili famiglie a Botrugno, da quella di Fabio Cicinello, coniugato conil-sarcofago-della-famiglia-maramonte Francesca Antonia Maramonte, a quella di Carlo Capece e Giulia Maramonte. Nel 1636 l'esistenza di queste nobili famiglie veniva sconvolta da un violento dramma coniugale, che ebbe come protagonisti la moglie di Francesco Maramonte, Giovanna Castriota, la sorella di costei e due nobili cavalieri della famiglia Cecinello, Giambattista e Andrea, che tenevano in affitto la terra di Scorrano ed erano cugini carnali delle due sorelle Castriota. La parentela e l'amicizia si erano trasformate ben presto in un gioco amoroso. Quando Francesco scoprì il tradimento della "bella e vezzosa" moglie, uccise ad archibugiate Andrea Cecinello e ferì le due donne. Da allora tra le due casate scoppiò un duro scontro, che si concluse con l'arresto di don Francesco.

Pochi anni dopo i Maramonte decidevano di vendere il casale. E' del 24 gennaio 1651 la concessione del regio assenso per "la vendita libera fatta per Giò Tommaso Maramonte della terra e casale di Botrugno sito nella Provincia di Terra d'Otranto in beneficio di D.Carlo Castriota per prezzo di ducati 22.000...".

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I Castriota

stemma-della-famiglia-castriotaPoco é rimasto, nella memoria storica dei botrugnesi, dei loro più antichi feudatari, possessori di Botrugno dalle origini sino al 1806, data di abolizione del regime feudale nel regno di Napoli. Poco é rimasto soprattutto della nobile famiglia Castriota, che mantenne ininterrottamente il possesso dal 1651 al 1817. Eppure essa annoverò coraggiosi guerrieri e intraprendenti commercianti, che fecero parlare di sé per ampio raggio.

Ne sapevano qualcosa gli abitanti di Castro, che nell'anno 1781, stupiti e meravigliati, notarono nel loro tranquillo e placido porto, febbrili preparativi per l'allestimento di un cantiere per la costruzione di una nave. A memoria d'uomo, nessuno a Castro e in tutta la penisola salentina ricordava un tal genere di imprese. L'intera grotta di mezzo, come ancora oggi viene chiamata, sarebbe stata occupata per intero dalla costruzione di quel bastimento, per il quale venne chiamato un maestro d'arte da Napoli, un tale Domenico Longo. Strana era anche la forma e la velatura, tipica di uno sciabecco, bastimento svelto e leggero, con tre alberi leggermente inclinati a prora e in genere usato per razzie.

Non soltanto gli abitanti di Castro furono colpiti da questo avvenimento, ma anche quelli dei paesi vicini, che in tanti accorsero curiosi. Vi accorsero numerosi anche gli abitanti di Botrugno, più sorpresi di tutti gli altri perché a commissionare quella straordinaria costruzione era stato proprio il marchese di Botrugno, Carlo Maria Castriota, figlio di Francesco Saverio e di Anna Carignani. In poco tempo, Carlo Maria Castriota diventò un mito; era sulla bocca di tutti, anche perché sull'uso di quello sciabecco erano state formulate le più strane ipotesi. Lo stesso parroco di Castro, don Tarantino, gli dedicò un epigramma in versi, lodando l'ingegno e l'onore di questo marchese.

I lavori durarono quattro mesi; a luglio lo stesso parroco benedisse solennemente la nave: " Tra una vera folla di popolo - dice la nostra fonte - tra grida di gioia e sventolii e spari, il legno fu varato, e galleggiò felicemente nelle acque tranquille del suo porto" .

Noi, invece, sappiamo quali erano le reali intenzioni del marchese e ben sappiamo anche che quel legno non sempre galleggiò felicemente e non sempre trovò acque tranquille. Possessore di vasti oliveti e ricco produttore di olio, il giovane marchese, sperava di far uscire dall'isolamento il Salento e con lo sciabecco aveva in progetto di commerciare il suo olio con i porti più lontani d'Italia.

Sino ai primi anni di questo secolo, la notizia della costruzione dello sciabecco era circolata insieme con quella del suo precoce naufragio, che avrebbe anche travolto la vita del marchese. Qualcuno, a distanza ormai di oltre un secolo dall'avvenimento, ha pensato che tale voce altro non fosse che una leggenda, con la quale si era voluto circondare la figura di Carlo Maria, di cui a un certo punto non si era avuta più notizia.

Leggenda purtroppo non fu, come ci rivelano alcune carte dell'Archivio di Stato di Napoli. Il coraggioso marchese nel 1784 aveva pensato a un viaggio di commercio con Venezia e la Dalmazia; riuscì appena ad iniziarlo. Presso le acque di Monopoli, il suo brigantino fu colato a picco da una tempesta; il marchese perì insieme con tutto il suo equipaggio.

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I Guarini

stemma-della-famiglia-guariniFrancesco Maria fu l'ultimo rampollo della famiglia Castriota. Nel 1806 veniva abolito il regime feudale nel Regno di Napoli. Dopo questi eventi, egli, seriamente ammalato, preferì soggiornare sopratutto a Lecce. Qui, tra tutti i suoi parenti, Oronzo Guarini, figlio del Duca di Poggiardo Francesco Antonio, seppe dargli l'affetto e l'assistenza necessari, prendendosi cura della sua malferma salute e dei suoi affari. Per questo motivo il 24 maggio 1817, stendendo il suo testamento, l'ultimo dei Castriota decise di donare a Oronzo Guarini la terra e il feudo di Botrugno e lo stesso titolo di marchese.

Soppresso il regime feudale, i Guarini mantennero la proprietà del feudo di Botrugno, ma senza più esercitare alcuna funzione di governo, affidata ormai ad organi elettivi. Oronzo Gaurini, che aveva sposato Maria Anna Frisari dei duchi di Scorrano, tentò di portare un pò di ordine nella gestione della proprietà agraria, che gli ultimi Castriota avevano alquanto trascurato. Nel 1821 volle rinnovare i contratti di concessione in enfiteusi, che non erano più stati ratificati dopo la prima metà del Settecento.

Non ebbe comunque molto tempo per questo suo lavoro, perché morì nel marzo del 1825, a quarant'anni. Toccò al fratello Ignazio, quale suo "erede beneficiario ed amministratore giudiziario" continuare il suo lavoro. Dalla moglie Concetta Bozi-Colonna, Ignazio ebbe tre figli: il primogenito Francesco Saverio Antonio ( 1828-1898), marchese di Martignano, coniugato con Anna Maria Veris (1824-1892), figlia di Ignazio ed Aurora Papaleo di Scorrano, gli successe come erede di tutti i beni che i Guarini possedevano a Botrugno. Fu anche sindaco del Comune di Nociglia, al quale Botrugno era stato aggregato dopo l'unità d'Italia.

Da loro nacque nel 1865 Ignazio Guarini, con il quale si chiude definitivamente la storia dei marchesi di Botrugno. Coniugato con Teresa Lubelli (1873-1928), non ebbe prole. Negli anni 1900-1902 ricoprì la carica di sindaco di Nociglia. Ancora oggi é ricordato per la sua religiosità e per il senso di carità cristiana, che sempre lo animò. Morì a Lecce il 28 maggio 1937.

Due anni prima della sua morte, in un testamento che resta a testimonianza delle sue alte qualità morali delle sue virtù cristiane, egli volle beneficiare tutti coloro che gli erano stati vicini, compresi i domestici.

Destinò inoltre alcuni fondi alla parrocchia di Botrugno e alla Chiesa di Sant'Antonio e una parte più consistente per l'istituzione di un asilo per bambini poveri. Volle, infine (nel caso in cui il nipote Mario De Fracesco non avesse avuto figli, come poi avvenne), destinare la parte più cospicua della sua eredità, compreso il palazzo marchesale, per l'istituzione di un Ospizio di mendicità.

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